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I bulli sono solo dei vigliacchi! Non essere la loro spugna! La testimonianza di chi ha subito, ma ha saputo riscattarsi

Siracusa- Solo chi nella vita è stato fatto sentire “diverso”, “sbagliato”, “mediocre”, una “nullità”,  può comprendere il peso di certe parole, il dolore delle spalle girate a ricreazione, la necessità di rifugiarsi in un mondo migliore creato dalla fantasia per proteggersi dalle aggressioni quotidiane. Solo chi ha sofferto il bullismo può raccontarne gli aspetti più amari, e aiutare gli altri a denunciare, a liberarsi dalla morsa di vigliacchi. Cinzia Giddio, scrittrice siracusana, racconta alcuni episodi della sua infanzia da ragazzina “tranquilla”, “ubbidiente”, presa di mira per i suoi occhialoni ma dotata della forza d’animo che le ha consentito di rinascere, dopo ogni caduta, anche quella indotta da compagni e compagne sbruffoni, pronti  alla derisione di massa, ma non agli esami di coscienze superficiali,  immature e già difettose di valori, che invece vanno alimentati, come quelli della solidarietà.

Non essere la spugna dei vigliacchi!

Si è come una spugna, quando si è una bambina di sei anni e si comincia la prima elementare. Si assorbe tutto, con fiducia, quella fiducia che fa pensare che è giusto quello che i “grandi” fanno e dicono, e non solo loro. Da piccoli si imparano  lezioni di vita anche dai propri coetanei, sia da quelli che ti dimostrano simpatia e amicizia sia da quelli che non mancano di mostrarti invece antipatia ed avversione perché, per qualunque motivo esistente o meno, ti vedono diversa, talmente diversa da metterci impegno nel farti sentire, a sei anni, “sbagliata”. E qual è il comportamento da seguire per una bambina di sei anni, quando il gruppo degli indisciplinati della classe ti prende in giro per il tuo aspetto, dicendoti senza mezzi termini che sei brutta, e prendono a calci la tua cartella appesa allo schienale della sedia fino a ridurre il portapenne in plastica che è vi è contenuto in briciole, badando con scrupolo che questi e molti altri episodi seguitino pure per i restanti quattro anni di fila delle elementari? Denunciare i fatti alle insegnanti, ai genitori? Tutto fatto in modo ripetuto… non è di certo bastato: per un paio di giorni si può anche essere lasciate in pace, ma dopo poco ricomincia tutto, con la stessa cadenza di prima, se non addirittura con più frequenza. E non basta neanche fingere indifferenza allo scherno, provando quindi a difendersi così, secondo quanto detta la propria personale indole. Se poi tutto questo, in maniere differenti nella forma ma uguali nella sostanza continuano pure e riempiono giorno per giorno una parte degli anni delle scuole medie, ci si rafforza nel pensare che in fondo simili comportamenti da parte dei bulli della classe sono normali: l’essere brutta e stupida è un pensiero che di me hanno tutti, quindi le prese in giro mi toccano, è quello che mi spetta, è la normalità. Del resto è sempre stato così, da quando avevo sei anni. Poi, intorno ai tredici anni succede che si cresce, e intorno si vedono crescere anche gli altri, e le altre, nel loro piccolo bullizzate anche loro dalle stesse persone. Si avverte un certo cambiamento un pò in tutto e questo avviene nel tempo: ad accompagnare la crescita propria ed altrui non è solo il senso di rinnovato rispetto che si riceve da chi si mostra più o meno gradualmente solidale con te, marchiata da sempre per motivi così futili, ma c’è anche una sensazione di stupore, di incredulità nel sapere che in fondo, anche se in precedenza hanno veramente fatto di tutto per convincerti del contrario, così “sbagliata” non sei. Ho detto bene, si, incredulità. In molti mi daranno ragione, perché è risaputo come qualunque tipo di messaggio recepito dall’esterno, positivo o negativo, per un bambino o una bambina di scuola elementare possa radicarsi in modo così forte da attecchire completamente nel proprio animo, e farsi sentire sempre dentro di sé, come una musica di sottofondo che non può essere spenta, se non in una minima parte, a seconda della propria sensibilità, che più è presente più condiziona.
I cambiamenti per fortuna, in alcuni casi, avvengono crescendo. Cambia il modo di interagire con i fatti che capitano e con le persone che si evolvono insieme a te. Ci si rende conto di molte cose, e si riesce persino a quantificare, esaminando e imparando a distinguere quel che ha avuto una effettiva variazione da quel che invece non potrà cambiare mai. Di me posso raccontare e parlare ancora di quella bambina accolta il primo giorno di scuola nella prima classe delle elementari da una linguaccia e da un paio di occhi dall’espressione indispettita di una bimba della sua stessa età, senza nessun motivo, ancora per molte volte. Di me posso dire di come quelle che ora sembrano piccolezze, specialmente confrontandole alle condotte degli scolari di oggi, abbiano comunque lasciato inevitabili strascichi nel tempo, nel percepire me stessa e la mia propria autostima. Al tempo stesso, però so che non posso per alcun motivo fare in modo che gli episodi subiti in quel passato che serviva a formare il mio carattere, non siano sradicati al punto da ostacolarmi ancora, sia nelle mie consapevolezze sia nelle mie scelte da fare per migliorarmi e crescere ancora. Rispetto alla bambina e alla ragazzina che si rassegnava alle umiliazioni e poi si stupiva dei seguenti diversi atteggiamenti da parte di ciascuno e con la stessa rassegnazione di lasciava confondere da tutto e da tutti, preferisco essere adesso una donna che sa apprezzare i consigli e le risposte da parte di chi sa insegnare e trasmettere la bellezza dell’umiltà, invece che la bruttezza delle umiliazioni.

Lettera al “piccolo quattrocchi”,  alla “nullità”…non credere a loro tu sei migliore !

Piccolo Quattrocchi,
conosci già il peso del soprannome che in classe ti hanno appiccicato addosso, per il solo fatto che inforchi un paio di occhiali. E sai bene come nascondere quello che realmente i tuoi occhi dicono ai compagni che ti chiamano così, sotto quelle spesse lenti. Come te, conosco la tua solitudine e so quel che pensi, quando ti prendono a spintonate, o ti fanno cadere di proposito il quaderno dalle mani, accentuando le tua “imbranataggine”.
Parlo proprio con te, e sento che devo raccontarti una storia. È la storia di un bambino che va a scuola ma non ha amici. È un bambino che si sente solo. È un bambino che sta da solo. Gli altri bambini tutti i giorni lo offendono, lo prendono in giro, lo picchiano, rubano i suoi oggetti, sfidandolo con prepotenza a riprenderseli se ha il coraggio, deridendolo. I suoi compagni di scuola si sentono invece forti, di sicuro più forti e intelligenti di lui che, certo, è debole. E gli dicono che è stupido, e piange, perché quello è il suo modo di reagire agli scherni. Non trova amici, non può neanche credere di averne perché quei bambini che potrebbero dimostrarsi amichevoli con lui hanno anche loro paura di subire gli stessi torti. E quindi ridono. Anche loro ridono di lui, che è vittima e non può fare altro che dare voce al pianto. Tutti i giorni è costretto a cedere i suoi compiti a chi in classe non li ha fatti, per non tornare a casa con la traccia di un pugno sul viso. Costretto a stare zitto, mentre atterrito guarda l’obiettivo della fotocamera di un cellulare che lo riprende, mentre continuano a colpirlo, a prendersi gioco di lui che non sa e che non può difendersi perché sa che alla minima ribellione ai suoi aguzzini seguiterà la pubblicazione di  quel video in rete.
Ti racconto la sua storia e come sapresti fare anche tu, anche io posso parlarti di cosa si prova quando si cade nella rete di chi si pensa forte e furbo facendo sentire debole e inferiore qualcun altro. Posso anche parlarti di chi sono i peggiori nemici di quel bambino che a scuola e in altri luoghi ha avuto troppe volte umiliazioni, minacce, percosse: il silenzio e l’abitudine. Il silenzio che grida negli occhi di quel bambino, che a casa dice che va tutto bene, sapendo che non è così. L’abitudine che porta la rassegnazione, a credere davvero nel suo essere stupido, piccolo, debole. E quella rassegnazione segnerà quel bambino per sempre, nella sua vita.
Ma ti parlo di fiducia, quella stessa che così tanto può fare, che tanto può cambiare. La fiducia che porta a raccontare tutto a chi può e sa come intervenire: gli insegnanti di quella scuola che si è fatta scenario di ogni sorta di soprusi diffusi e resi pubblici tra i suoi compagni, un ambiente che sin dall’inizio avrebbe dovuto essere una protezione per lui, che ora mette da parte la paura ed ha il coraggio di parlare di sé  e di quel che succede nella sua classe, senza temere giudizi da parte di nessuno e riscoprendosi non più così solo.
In questa storia parlo di te che adesso sai difenderti da quelle ingiuste azioni che ti hanno rivolto, perché sai bene che la vera debolezza è della persona che la provoca in te,  che sei più forte di quelli che ti prevaricano, che ti sono indifferenti, che ti lasciano da solo per terra, il naso insanguinato e gli occhiali in frantumi. Sai che anche loro hanno bisogno di aiuto: sono bulli, e contro di te usano la prepotenza per non avvertire la loro paura. La paura di essere diversi da te.
Crescerai, piccolo Quattrocchi, e sono cresciuta anche io. Non ho più paura di difendermi e nel tempo ho imparato a liberarmi da quelle etichette che mi hanno incollato addosso, senza nessun motivo. Ed ho imparato anche io a fare differenza, e ad avere il coraggio di oltrepassare senza ostacoli quel confine che separa l’umiliazione dall’umiltà.

Cinzia Giddio

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